Energia, le centrali italiane tornano al carbone: cosa frena (davvero) la transizione energetica- Corriere.it

2022-10-15 02:54:30 By : Ms. Catherine Fang

di Ferruccio de Bortoli01 mar 2022

Salvate il soldato Gas. Quando c’è una guerra conta averla l’energia, non sceglierla. La transizione può attendere, le emissioni non contano. E non a caso tra le sanzioni economiche, sulla cui efficacia è lecito nutrire qualche dubbio, il gas è escluso. Perché vitale. Si è passati in pochi mesi da una discussione — che ora ci appare remota — nella quale lo si voleva escludere dalle fonti su cui investire, all’affermazione del metano come arma strategica. Irrinunciabile. Tanto da volerne in quantità maggiori, estraendolo nelle riserve nazionali dell’Adriatico (giusto, se no lo fanno i croati) o chiedendo all’Algeria di mandarcene di più. Il prezzo oscilla violentemente. Ma da Tarvisio, il gas russo affluisce in quantità superiori a prima. E noi tiriamo un sospiro di sollievo. E se è necessario ricorrere al carbone rimandando la chiusura di qualche contratto di fornitura, perché no? Tant’è vero che ora in Europa il 40 per cento dell’elettricità è prodotta grazie al carbone. Ma saremmo ipocriti se addossassimo all’invasione russa dell’Ucraina tutte le colpe di questa frenata improvvisa nella transizione energetica.

La (lunga) attesa delle rinnovabili

Già prima del blitz di Putin, nella percezione della classe dirigente e dell’opinione pubblica in generale, il pianeta poteva riscaldarsi ancora un po’ se si trattava di assicurare le forniture di gas e avere combustibili fossili a prezzi non stellari. La paura più forte era ed è quella di rimanere al freddo, non di aumentare le emissioni di gas serra o di ridurle in misura insufficiente. In margine alla crisi ucraina va fatta anche una riflessione sull’eterogenesi dei fini. L’opposizione verde agli investimenti nel gas, e nella diversificazione degli approvvigionamenti, ha aiutato Putin ad alzare le quotazioni spot delle sue vendite. Forse in maniera tale da influenzare i contratti di lunga durata (take or pay ). L’emergenza ambientale si è spostata un po’ più in là. Le rinnovabili possono attendere se c’è il caro bollette, affrontato anche togliendo loro le risorse derivanti dai certificati ambientali emessi per disincentivare le produzioni inquinanti. Si pensi solo che l’Olanda ha installato, nel 2021, impianti rinnovabili per oltre 3 gigawatt, noi appena 800 megawatt. In Italia ci sono richieste, al 31 dicembre del 2021, per 136 gigawatt sulla terraferma e 32 in mare. La stragrande maggioranza ha già ricevuto il via libera tecnico di Terna, cioè di potenziale connessione alla rete elettrica. Se solo la metà dei progetti venisse realmente installata saremmo in grado di cogliere anzitempo gli obiettivi del 2030. Ma gli ostacoli burocratici e locali sono molteplici. Spesso insuperabili. Non solo. La domanda non eludibile è: sono progetti seri ed economicamente autonomi o presuppongono, nel calcolo del costo di produzione, l’attesa di qualche forma di sussidio?

Il «dilemma» dell’ambiente

E poi c’è un dilemma ecologico ed estetico che si fatica ad ammettere. L’ambiente è stato giustamente tutelato e messo in Costituzione. Evviva. Ma se vogliamo veramente spingere sulle rinnovabili, il paesaggio un po’ ne dovrà soffrire. O crediamo che pale e pannelli siano invisibili? Mentre le quotazioni del greggio salgono e il carbone (l’attività economica più redditizia delle repubbliche russofone del Donbass) conosce un inatteso revival, non assistiamo a manifestazioni di massa contro il riscaldamento climatico — nemmeno tra gli studenti che hanno altri problemi contingenti — bensì a proteste di no vax, o a mobilitazioni come il Freedom convoy in Canada. Si parla più del green pass e dell’agognato ritorno alla vecchia libertà che di tematiche green. Questo ci dice molto sulla complessità della transizione non solo energetica. E soprattutto sull’autentico significato della parola «sostenibilità», nelle sue varie e pressoché infinite sfaccettature. Le emergenze si intrecciano, si sovrappongono. La sfida intellettuale e politica è quella di capirne l’interdipendenza, senza perdere per strada gli obiettivi, il più importante dei quali è la salute e la vita del pianeta. Quest’ultimo non è raggiungibile sottostimando gli altri.

La lettura più illuminante, tra gli studi apparsi nell’ultimo periodo, è offerta da un lavoro di Marco Magnani dal titolo: Making The Global Economy Work For Everyone (Palgrave MacMillan ) . «Quello di cui non ci rendiamo perfettamente conto — sostiene Magnani — è che la sostenibilità si traduce in molte dimensioni, spesso interconnesse: ambientale, energetica, alimentare, demografica, sanitaria, sociale. Se, per esempio, misure a favore dell’ambiente sono introdotte troppo bruscamente, senza calcolare le ricadute sociali e politiche, l’effetto può essere addirittura controproducente. Abolire o semplicemente ridurre sussidi ambientalmente dannosi, colpisce soggetti e Paesi più deboli e amplia le disuguaglianze anziché ridurle.

L’equilibrio è assai delicato, ma non impossibile da raggiungere. Personalmente penso — in linea con gli studi di Cass Sunstein e Richard Thaler— che sia meglio persuadere e pungolare che imporre e sanzionare». Ma ciò presuppone — aggiungiamo noi — un’attenzione diversa alla cultura della transizione, scevra di illusioni e inganni. Ogni scelta ha un suo costo. Pagato anche e soprattutto da chi non si aspetta di pagarlo. Ogni innovazione ha vincitori e vinti. E soprattutto vi è una sostanziale differenza rispetto ai cambi di paradigma, nell’evoluzione tecnologica ed economica, del passato. Non è certo che l’impatto sull’occupazione sia sempre positivo. E non è nemmeno sicuro che le varie rivoluzioni in atto si traducano, come nel Novecento, in una duratura crescita economica. Magnani prova ad elencarne alcune: robotica, droni compresi, quantum computing, guida automatica dei veicoli, stampa 3D, Internet delle cose, tecnologie cloud, intelligenza artificiale, machine learning, realtà aumentata e virtuale, blockchain, nanotecnologie, nanomateriali, mappatura del genoma, space economy, neurobionica.

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La transizione, l’inclusione e le guerre

«La frequenza di introduzione di innovazioni dirompenti — aggiunge Magnani — è senza precedenti. Non c’è tempo sufficiente per metabolizzarle, a volte nemmeno per comprenderle fino in fondo. I diversi progressi tecnologici s’intersecano, si combinano, si integrano e si alimentano reciprocamente, contribuendo ciascuno allo sviluppo e al miglioramento degli altri. Oggi è evidente che sono necessarie scelte di politica economica e sociale che assicurino, il più possibile, una transizione ordinata nella quale la cura dell’ambiente si accompagna alla riduzione delle diseguaglianze, al rafforzamento della sanità pubblica, al miglioramento della mobilità sociale e soprattutto all’istruzione». La transizione non è una sola. Non si coglie un obiettivo trascurando gli altri. Non si arriva, per esempio, alla neutralità nelle emissioni con costi sociali troppo elevati, penalizzando lo sviluppo. E forse il problema principale per chi governa non è ottenere il consenso ma limitare la protesta di chi si sente escluso, persino uno «scarto» della società, come ammonisce il Papa. La qualità dell’aria — brutto a dirsi — importa meno quando il lavoro e il reddito scompaiono. E poi ci sono, incidente della Storia, persino le guerre. Così frequenti da non essere mai previste.

di Massimiliano Jattoni Dall’Asén

di Massimiliano Jattoni Dall’Asén

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